“Sapevo benissimo che se mi fossi fermato per soccorrere il mio amico avrei rischiato di essere colpito anche io. Ma decisi di aiutarlo altrimenti non avrei mai potuto perdonarmi di averlo lasciato morire per strada”.
Ibrahim al Hussein era un ragazzo come tanti, aveva 22 anni e fino a poco tempo prima aveva una vita normale.
Una vita normale a Deir al Zor, in Siria.
Ibrahim amava il nuoto, e prima ancora di entrare in piscina, imparò a nuotare nelle acque del fiume Eufrate. Suo padre era stato nuotatore professionista e Ibrahim sperava di seguire le sue orme e magari un giorno arrivare alle Olimpiadi.
Per questo s’impegnava tanto: scuola la mattina, allenamenti di nuoto tutti i pomeriggi.
Ma nel 2011 la normalità diventa solo un ricordo: la Siria sprofonda nell’incubo della guerra, tutto cambia. Niente più scuola, niente più allenamenti.
Un po’ alla volta il suo mondo inizia a sgretolarsi. La famiglia cerca di emigrare, lui rimane in Siria.
Nel 2012 la sua vita cambia per sempre. Un suo amico viene colpito da un cecchino per strada. Ibrahim sa bene che è pericolosissimo, ma non può lasciarlo per terra, ferito mentre implora aiuto. E quindi si avvicina per aiutarlo. Ma in quel momento esplode una bomba, a un passo da loro.
Ibrahim si risveglierà in ospedale, dopo aver subito l’amputazione di una parte della gamba destra.
La sua vita gli sembra finita, lui è distrutto, depresso, bloccato su una sedia a rotelle senza avere nemmeno la possibilità di cure adeguate.
Deve andare via dalla Sira, restare lì vuol dire morire. Nonostante le sue condizioni sale su un gommone con un amico e scappa.
Arriva in Turchia, dove incontra tutta una serie di persone generose, molti rifugiati siriani che lo aiutano: chi gli offre un pasto, chi un posto dove stare.
Finalmente riesce ad ottenere una protesi per la sua gamba, anche se non di buona qualità e quindi non riesce a fare grandi movimenti. In ogni caso in Turchia non ha molte possibilità, lì si limita a sopravvivere, ma senza alcuna speranza per il futuro.
Ibrahim vuole arrivare in Europa.
Per questo il 27 febbraio 2014 tenta la traversata dell’Egeo, su un vecchio gommone. È fortunato, perché sopravvive al viaggio e arriva all’isola di Samos.
Grazie all’aiuto di altri rifugiati che faranno una colletta per pagargli il traghetto, arriva ad Atene. Non ha amici, non conosce nessuno, non parla il greco. Si trova a vagare per strada, a dormire nei parchi. Finché un giorno non incontra un siriano che ha un amico con la sua stessa disabilità e che gli presenta il suo dottore, Angelos Chronopoulos, un Angelo di nome e di fatto perché prende a cuore il suo caso e gli costruisce una protesi nuova, su misura, senza farsi pagare. Anzi, sostiene lui tutti i costi di preparazione e manutenzione.
A quel punto la vita può ricominciare: una volta imparato a camminare con la nuova protesi, Ibrahim riesce a trovare lavoro come addetto alle pulizie in una stazione, con i soldi può affittarsi una stanza. La vita può ricominciare, ma qualcosa ancora manca: lo sport.
Non riuscendo a trovare una piscina dove ricominciare ad allenarsi, entra in una squadra di basket su sedia a rotelle, ma alla fine, nel 2015 Ibrahim torna in acqua. Si fa notare in diverse gare, vince dei premi, e la sua storia arriva all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e viene invitato a portare la torcia olimpica ad Atene prima che raggiunga Rio per le Olimpiadi del 2016.
Un grandissimo onore, cui segue la gioia immensa di partecipare alle Paralimpiadi di Rio nella prima squadra paralimpica dei rifugiati.
Adesso Ibrahim al Hussein è a Tokyo, nella squadra dei rifugiati e domani gareggerà nei 100 metri rana, ma comunque andrà, lui ha già vinto la sua battaglia più grande: riprendere in mano la sua vita, non smettere di lottare e realizzare il suo sogno da bambino di partecipare alle Olimpiadi.
E tutto questo è stato possibile solo grazie alla generosità e alla straordinaria gentilezza di tante persone che Ibrahim ha incontrato nel suo lungo e doloroso cammino.
Ah, la cosa più importante: l’amico ferito che Ibrahim aveva soccorso rischiando la vita, si è salvato, e oggi è padre di tre bambini.
La farfalla della gentilezza
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