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La missione di 3P

“La prima volta che entrò nella baraonda della classe del Liceo Vittorio Emanuele II di Palermo (correva l’anno 1978) aveva uno scatolone vuoto sotto il braccio. In silenzio, lo posò per terra. E mentre noi, azzittiti e stupiti, lo guardavamo, lo pestò con un piede. - Avete capito chi sono io? – domandò. - Un rompiscatole -, concluse sorridendo tra le nostre risate”. Lui, Don Pino Puglisi, effettivamente per i mafiosi era proprio un “rompiscatole”. Perché dava troppo fastidio: non solo si era permesso di cambiare i percorsi delle processioni, per evitare di fare gli “inchini” davanti le abitazioni dei mafiosi importanti. Non solo aveva eliminato tutti quei festeggiamenti eccessivi e quei riti quasi pagani sintomo di una religiosità solo di facciata, incompatibile con i veri valori cristiani. Ma soprattutto si era permesso di usare un’arma potentissima e pericolosissima contro i mafiosi: l’istruzione. Già, perché Don Puglisi oltre che sacerdote era anche insegnante, e con il suo incessante impegno riusciva a togliere i ragazzi dalle strade per mostrare loro un modello di vita diverso da quello mafioso, dominante e vincente nel quartiere Brancaccio di Palermo. Un quartiere dove l’evasione scolastica era altissima, forse perché c’era troppa povertà, forse perché scippi e furti erano considerati più “interessanti” rispetto alle lezioni di matematica o italiano. O forse anche perché a Brancaccio non c’era una scuola media (e ha continuato a non esserci fino al 2000), e chi voleva studiare era costretto a spostarsi. E, come sosteneva don Puglisi, evidentemente questo faceva comodo “a chi vuole che l’ignoranza continui”. D’altronde è nell’ignoranza che la mafia pesca e attira le giovani leve, ma togliendo i ragazzi dalla strada, per inserirli e coinvolgerli nei gruppi parrocchiali, don Puglisi sottraeva manovalanza ai boss. Lui credeva fermamente nell’efficacia di una forte azione pedagogica, e considerando che bambini e adolescenti erano ancora in tempo per essere salvati, voleva aiutarli “a camminare da soli a testa alta”. Quanto fastidio poteva dare un uomo così alla mafia? Molto, troppo. D’altronde si sa: la mafia si sconfigge con la scuola, certo non con le armi, non con il carcere. O almeno non solo. Per questo Don Puglisi faceva tanta paura ai mafiosi. Iniziarono le minacce. Lettere anonime, telefonate mute, le gomme dell’auto bucate. Poi qualche bomba molotov. Incendi. Attentati contro la parrocchia. E poi, in un crescendo di violenza e orrore, arrivò inevitabile la condanna a morte. Era il suo compleanno, il 15 settembre del 1993. La sera, mentre stava rientrando a casa, don Pino Puglisi fu freddato da due sicari che lo uccisero con un colpo di pistola alla nuca. Don Puglisi aveva capito che il suo destino era ormai segnato, ma ciononostante non si era mai fermato. “Il massimo che possono farmi è ammazzarmi. E allora?” E allora lui aveva una missione da portare avanti, una missione in cui credeva con convinzione e per la quale valeva la pena rischiare anche la vita. Don Puglisi non era però un ingenuo o un illuso: sapeva benissimo che con le sue iniziative non avrebbe cambiato il mondo, e nemmeno trasformato il quartiere. Ma comunque lui voleva rimboccarsi le maniche e fare la sua parte, perché “quelli che riflettono troppo prima di fare un passo, trascorreranno tutta la vita su di un piede solo”. Eppure, “se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto”.

a cura della farfalla della gentilezza (Le citazioni virgolettate sono tratte dal libro a cura di Francesco Deliziosi, “Don Pino Puglisi. Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto”, Bur 2018)



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