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La vita come i tempi supplementari


di Benedetta Cosmi


La percezione con cui crescono le nuove generazioni è quella di avere davanti a sé una vita lunga, più di qualsiasi tenuta sul mercato, di qualsiasi azienda alla quale dedicare la propria (vita). È una dimensione fortunata. È frutto di ricerca, salute, studio, progresso. È una dimensione nuova. Si deve al valore della pace, della medicina, e anche della prevenzione. Ma quanto è legittimo prevenire il rischio?

Quanto è desiderabile estendere la vita?

Il contesto ridefinisce ogni volta il valore della propria?

Penso a noi studenti di un tempo, del decadente Classico. Cresciuti auspicando una vita di senso, un atto eroico studiato intorno a Ettore e i suoi.

Trascinare l'ultimo rimasto indietro invece di pensare a vincere o a salvare la propria pelle.

Insomma quanto è importante vivere e per chi? Per la vita stessa? Per il Dio che ce l'ha data secondo la propria religione. Per egoismo. Quando si può essere soddisfatti? Una bella partita di calcio che non finisce? Le palline del flipper infinite? Un bacio intenso e vissuto senza la sigla, i titoli di coda.

Insomma quando abbiamo finito di dare o di prendere? Quando si è in equilibrio o quando si perde l'equilibrio quando è più conveniente o sconveniente, insomma la vita è stare sempre dalla parte giusta o la vita ha il gusto dei mascalzoni, delle cose sbagliate, quale delle due è la posizione rinunciataria e quale è quella per cui vale vivere fino all'ultimo istante. Come se fosse l'unico, il primo, il più importante, non si può vivere a lungo! Provocatoriamente dico non si può vivere così a lungo.

C'è un momento in cui nessuno vorrebbe finisse la partita ed è il momento in cui si sta creando una bella azione. C'è poi un momento in cui non speri altro che fischi l'arbitro. In mezzo c'è l'Italia che segna all'ultima azione. Dopo non aver vissuto per 85 minuti. Se fosse andata avanti avrebbe subito un goal. I tempi supplementari sono la vita che tutti noi sogniamo. Anche i rigori non scherzano. Ma alla fine l'Italia è fuori, è finita la speranza, ha subito due goal. «Eravamo - qualcuno sussurra- campioni uscenti», ora più uscenti che campioni. Qui potrebbe iniziare un nuovo articolo, economico, gli imprenditori italiani hanno voluto magari a ragione dismettere il loro legame con le squadre di calcio, le principali come Milano e Inter, nel frattempo siamo diventati il Paese del Tennis (forse), non so quanto durerà speriamo più della gioia di aver vinto gli Europei la volta prima. Ci ricordiamo che era già essa una squadra inaspettata, senza numeri uno conclamati e numeri dieci del cuore. Prendere da fuori è comodo e poi si paga. L'asse si è solo spostata su altri sport magari non è nemmeno una cattiva notizia. L'economia, gli investimenti, il tifo, l'attesa, il senso d'appartenenza, l'orgoglio.

Poi c'è il tema della comunicazione, dei grandi eventi, la gestione del tempo libero, il piacere, la scarsità di attenzione e anche i battiti del cuore non sono infiniti. L'offerta stordisce. Il cuore si ritira dallo Stadio, che ormai è il televisore, lo Smartphone. Sul Naviglio avevano posto gli schermi. Il clima di sentire il suono delle partite la sera, da un locale all'altro era un brusio da Paese di una volta che mi era piaciuto qualche settimana fa. Ieri l'orario era sbagliato pure per vivere ciò.





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